Il piccolo Ulisse. Il mito della scoperta e l'illusione dell'adulto.
- Antonio Edoardo Marazita
- 15 giu
- Tempo di lettura: 2 min
quando pensiamo a Ulisse-Odisseo immaginiamo subito l’archetipo dell’esploratore: l’eroe che sfida il mare per saziare una curiosità quasi infantile—“vedere le case degli uomini e conoscerne la mente”, come racconta Omero. Ma se leggiamo l’Odissea con l’occhio dell’adulto, la stessa sete di scoperta rivela un rovescio di medaglia: dietro l’avventura aleggia la disillusione che accompagna il ritorno, un trauma sotterraneo che affiora appena Ulisse posa il piede sulla soglia di Itaca.
Nel percorso del nostro sviluppo psicologico, l’infanzia corrisponde alla fase eroica dell’esistenza: l’ignoto promette meraviglia e tutto sembra possibile. Ulisse incarna quel momento iniziale di fascinazione; i ciclopi, le sirene, Circe e gli dèi sono le proiezioni fantastiche che il bambino attribuisce al mondo esterno. Poi arriva l’età adulta, quando la “nostos”—il viaggio di ritorno alla realtà—impone il contatto con la finitezza. L’eroe scopre che la conoscenza non salva, anzi ferisce: ogni approdo lascia un graffio, una dissonanza tra l’ideale e il reale che chiamiamo, in termini contemporanei, trauma.
La scena dell’incontro con Penelope, coniugata al riconoscimento doloroso del proprio letto nuziale, cristallizza quest’amara verità. Ulisse è presente, ma non è più lo stesso; deve fingere, individuare i segni che solo i traumi intimi sanno leggere. Allo stesso modo, l’adulto che ha smarrito la fantasia della scoperta deve fare i conti con la distanza fra il sé immaginato e il sé esperito: un campo minato di rimpianti, ricordi ingombranti e compromessi quotidiani.
In quest’ottica il mito di Ulisse smette di essere un inno all’esplorazione fine a sé stessa: diventa un dispositivo narrativo che ci ricorda quanto ogni conquista porti in sé una perdita. La maturità consiste nel riconoscere che la meraviglia non scompare; semplicemente si trasforma, si riduce forse, ma si condensa in frammenti più sottili: il sorriso di Telemaco, l’odore dell’ulivo scolpito nel letto, la consapevolezza che persino la nostalgia può essere abitata. È qui che nasce la possibilità di un nuovo slancio creativo: non più l’illusione infantile della “prima volta”, bensì la scelta adulta di attribuire senso—e quindi bellezza—alle cicatrici rimaste dal viaggio.
Commenti