Sei l’uomo giusto per questo progetto!

Può capitare di ascoltare questa frase e di sentirsela dire personalmente. Vi è mai accaduto di percepire subito che sia del tutto errata nei vostri confronti? Eppure, è altrettanto evidente che abbiate le competenze esatte e le conoscenze giuste proprio per quel progetto. Questo tipo di relazione come vedremo più avanti, è il primo fattore scatenate di un rapporto di imbalance nell’equazione effort – reward.
L’analisi della struttura del progetto è un processo molto complesso. Vi concorrono numerosi elementi e non potendoli evidenziare tutti ne osserveremo almeno i principali, più riferiti alle relazione della persona con il progetto e con l’azienda.
Certamente il primo fra questi è rappresentato dal tipo di valore che il progetto porta all’organismo azienda e di conseguenza alle risorse umane. Se l’unico valore in analisi però è la quantificazione economica il progetto non potrà mai in alcun modo rappresentare una possibilità di sviluppo di energia aziendale. Il denaro quale indicatore della salute di una azienda è non solo uno strumento obsoleto ma anche del tutto fuorviante. Ci sono aziende molto sane dal punto di vista economico nelle quali lavorare è un vero e proprio inferno. Sono aziende che hanno un altissimo tasso di turn over, alto indice di defezioni e abbandoni, pochissima innovazione e risiedono in quello stagno limaccioso in cui non solo non si progredisce ma non si arretra neppure. A volte, invece, arretrare, può essere un male necessario.
Qual è allora il primo elemento indicatore e marker della salute di un progetto? La sua altissima compatibilità con le aspettative del corpo aziendale. Dove si registra uno scollamento tra gli obiettivi aziendali e gli scopi individuali, si ritrova anche un perverso meccanismo di comportamento organizzativo tutto centrato sull’esercizio di strategie miste. Quando parliamo di strategie miste, non indichiamo ibride formule e modelli per il raggiungimento dello scopo, ma di comportamenti spesso in conflitto tra il benessere dell’azienda e quello personale dei collaboratori. Una strategia mista messa in atto da un collaboratore può avere come risultato solo una bassissima forma di mediazione tra interessi individuali e aziendali. Inoltre, spinge il soggetto a percepirsi scollegato dall’organismo aziendale, ponendolo continuamente in un atteggiamento adattivo-difensivo. Il principio di sopravvivenza e igiene aziendale, fonda la sua autenticità sul fatto che più il collaboratore si sente in linea con gli obiettivi aziendali e più questi vengono manifestati dall’azienda verso di lui, più si percepisce “sano” e non ha bisogno di trovare motivazioni estrinseche al suo ambito e alla sua mansione poiché sono sufficienti quelle intrinseche al suo lavoro che coincide con gli scopi aziendali. Maggiore è la distanza tra la motivazione soggettiva rispetto allo sviluppo di lavoro in azienda, in relazione agli effetti di questo sul processo aziendale, maggiore è lo sbilanciamento tra “sforzo e ricompensa”.

In termini di valore, la ricompensa non è di fatto solo economica. Soprattutto negli ultimi periodi si osserva una reale diminuzione dell’interesse economico delle persone rispetto alla possibilità di esercitare nel lavoro le proprie aspirazioni al soddisfacimento dei bisogni di sostenibilità, creatività, libertà esecutiva, libertà strategica, di contenuto e di self management. Per riprendere l’inizio del discorso, dicevamo, che l’espressione “sei la persona giusta per questo progetto/lavoro” può non coincidere affatto con la realtà, proprio in funzione della dinamica sopra esposta di una ritrovata voglia di fare “un lavoro che piace”. Tradotto internamente all’azienda questo significa, lavorare al progetto che piace. Evitiamo la retorica spicciola e antica del “ma nell’azienda si fanno anche cose che non piacciono”. Non stiamo parlando del normale e accettabilissimo principio della disponibilità ad occuparsi di attività personalmente meno incentivanti, stiamo discutendo di quando questo rappresenta lo standard.
L’elemento oggetto della discussione “faccio una cosa che non mi piace” deve essere inquadrato nello spettro di analisi del comportamento dello stress nelle sue fasi. Una condizione di insoddisfazione protratta nel tempo, non serve certo uno scienziato, non può che produrre nelle persone una tensione via via più insopportabile della fase di mantenimento dei fattori stressogeni (o marker stressori). Più è lunga e ampia la fase di mantenimento più è alto il rischio che l’originario “eustress” divenga nei fatti “distress” con conseguente sviluppo di carico sullo sforzo che difficilmente trova un’agile fase di “esaurimento” della curva di tensione, causando in ultimo la condizione di “overcommittment” che non riguarda solo il carico di azioni e compiti ma anche l’accumulo di senso di sovraccarico emotivo che non può che portare all’inevitabile “burnout”.

Si badi bene che in una situazione di alta richiesta per la quale non esiste un allineamento del progetto con la risorsa dedicata, a nulla serve la motivazione economica. È solo un ridicolo strumento di persuasione e il miglior indicatore di una pessima leadership.
Le persone non si licenziano dalle aziende ma dai pessimi leader. Teniamolo a mente.
Quindi, al primo posto mettiamo l’allineamento della risorsa al progetto. Per meglio concludere, diremmo che non importa che un bravissimo ingegnere meccanico dotato di grandi capacità e competenze possa in effetti lavorare allo sviluppo di un aereo, se il suo sogno sono le auto, lavorare all’aereo potrà solo ricordargli ogni giorno quanto sia lontano il suo sogno!

Il secondo elemento in considerazione è l’autonomia di gestione della risorsa e la valorizzazione del suo spirito di iniziativa. Su questo elemento si innesta il principio di delega. Se non c’è la delega, nessuna risorsa potrà mai sentirsi libera di intraprendere azioni personali nel progetto. La delega però deve essere sincera e motivata. Non può essere e non può apparire come lo scarico di responsabilità del leader. Non è quel terribile meccanismo “vai libero ma ti devo controllare e devi essere monitorato”. Si monitorano i risultati non i processi. Se un leader sente di dover monitorare il processo, è implicito non si fidi dei collaboratori. La delega per avere effetto e stimolare intraprendenza deve essere autentica, dichiarata ed irrevocabile. Il coraggio del leader risiede nel saper accettare che il “delegato” potrebbe sbagliare, assumendosi lui per procura le responsabilità di guida del team. Sbaglia la risorsa ma rispondo io!
Davanti all’errore non può esserci sentenza sommaria e giudizio. Deve esserci valutazione, e condivisione delle possibilità di correzione che devono sempre essere lasciate all’iniziativa della risorsa. Sostituire una persona che ha sbagliato è un segnale per tutti i collaboratori, del tutto devastante. Se il soggetto/collaboratore non ha nessun strumento per rimediare, non deve essere escluso dal progetto, ma affiancato a qualcuno con il quale possa crescere e fare tesoro del processo di correzione. Se poi ci si rende proprio conto che è la persona sbagliata alla quale abbiamo dato la delega, di chi è la responsabilità? Mi pare ovvio. Del leader e responsabile di progetto.
Tolto questo, l’autonomia individuale va incentivata e promossa, resa evidente in tutti i comportamenti della leadership e incernierata nella logica aziendale. Un collaboratore autonomo è una risorsa che svilupperà “fedeltà aziendale”.
Terzo elemento nell’analisi di un progetto consiste nella verifica delle reali motivazioni, qui intese come “motivanti”. Che motivazioni individuali hanno le risorse per partecipare al progetto? Prima di pensare a motivazioni di tipo estrinseco come premi e incentivi, occorre individuare quelle intrinseche di ciascun operatore. Sarà il caso qui di citare McClelland e la sua suddivisione delle categorie motivazionali.
McClelland

Nella teoria di contenuto di McClelland (1961) ritroviamo alcuni passaggi che abbiamo visto già nelle pagine di questo testo a proposito dei profili di soggetto. Qui, detto orientamento è inquadrato non a partire da un effetto della motivazione, cioè “cosa essa potrebbe produrre, ma a partire dalla sua natura causante, cosa causa la motivazione”.
Alla base McClelland individua il “bisogno di riuscire” ed in questo trova conferma la natura del carattere delle società occidentali fortemente orientate all’oggetto/risultato. Si possono allora individuare una prima motivazione al potere, laddove il soggetto non cerchi esattamente il “potere” come immagine dello stesso, quanto invece metta in atto lo sforzo di “evitare di dipendere” (evitamento della dipendenza). Soggetti di questo tipo sono orientati dalla necessità di controllare gli altri e gli eventi attorno alla loro vita. Desiderano modificare le situazioni secondo le loro intenzioni ed in ambito lavorativo sono portati ad influenzare l’organizzazione, anche in maniera indiretta e più o meno consapevole. Una motivazione di questo tipo risiede in elementi e tratti della personalità non sempre costituenti una struttura interna positiva, in termini di approccio alla relazione.
Alcune manifestazioni del comportamento troppo attive possono essere scambiate per atteggiamenti arroganti, prepotenti, presuntuosi. Nella dinamica psichica più sana (mi si passi l’espressione), in realtà i soggetti potrebbero meravigliarsi del fatto che attorno a loro, non tutte le persone sono motivate dagli stessi modelli nei quali loro si attivano. In altre dinamiche “insane” i soggetti sono sopraffatti dall’angoscia della dipendenza, e sfuggono ogni possibilità di relazione che possa obbligarli a soccombere alla necessità di
interdipendenza/dipendenza. Come avevo anticipato, il lettore non tragga conclusioni affrettate. La motivazione al potere non determina la smaniosa fame di potere e successo ma una “paura della dipendenza”. In altre parole, un soggetto motivato dal potere potrebbe essere ugualmente felice senza essere necessariamente una persona di successo, purché non dipenda da nessuno/qualcosa.

Nella motivazione all’affiliazione troviamo l’esatto opposto. Soggetti che riconoscono il proprio orientamento in relazione alla collaborazione e all’identificazione con il gruppo. Si tratta di soggetti che sono condizionati dal principio di “evitamento dell’isolamento”. Stabiliscono consolidate relazioni supportive, appaiono amichevoli, creano rete. Allo stesso modo scelgono i partner collaboratori, tra coloro che si comportano in egual modo. Soggetti con una forte spinta all’evitamento dell’isolamento, non sono necessariamente incapaci di guidare un team, anzi possono essere capaci di inclusività e di stabilire meccaniche e dinamiche di comportamento utili alla mediazione, alla collaborazione, e allo sviluppo di motivazioni estrinseche condivise. Sono persone capaci di generare identità di gruppo e desiderio di appartenenza, a partire dal fatto che sono i primi a riconoscerne l’importanza.

Con la motivazione al successo e di conseguenza all’evitamento del fallimento, chiudiamo la teoria di McClelland. Come appare per le altre due, anche qui la logica deduzione sta nel desiderio di “non fallire”. Potremmo dire che è più importante non fallire di quanto lo sia tentare di riuscire o, meglio ancora, che soggetti simili, “odiano fallire più di quanto amino riuscire”. Desiderano raggiungere mete e obiettivi sfidanti e vedono in questo, lo stimolo a mettere alla prova le proprie competenze. Sono orientati al raggiungimento dell’eccellenza professionale.
Ciò però vuol dire che possono cadere da maggiori altezze. Una forte motivazione al successo, si scontra con l’inevitabile opposto, ossia il terrore del fallimento. In questo tipo di fallimento non si trova solo l’obiettivo mancato, capiamolo, ma una specie di rappresentazione distorta delle proprie “incompetenze”. Il forte locus of control interno di soggetti simili viene messo
sotto processo, con difficili passaggi di analisi critica. I motivati al successo possono prendere due strade davanti al fallimento: ipercritica, quando mettono in discussione tutta l’intera gamma delle loro prestazioni, assumendo la responsabilità del fallimento. Ipocritica, quando non vogliono vedere la trave nel proprio occhio e “attuando veri processi di evitamento” respingono l’idea di aver fallito, sviluppando locus of control esterno, affidando ad altri fattori esterni le ragioni del proprio fallimento. (Antonio Edoardo Marazita 2022)
McClelland conclude affermando che queste tre istanze appena descritte non devono considerarsi come unitarie e gerarchicamente organizzate secondo priorità e subordinazione. Possiamo rilevare tutte e tre dette istanze o solo due o una o due più evidenti di altre, all’interno dello stesso soggetto, in momenti diversi, in condizioni diverse, in ambiti di riferimento diversi, riferibili al “flow” di processo. Del resto, conclude ancora McClelland occorre anche considerare nella diagnosi, il tipo di mansione affidata al soggetto, capace di sviluppare l’una, l’altra o tutte e tre le istanze, orientando dunque l’analisi verso quello che potremmo definire il “fit” giusto tra le caratteristiche delle persone e le mansioni/posizioni lavorative assegnate.
Quindi potresti essere l'uomo giusto per questo progetto, se solo questo progetto fosse giusto per te!
Per questa prima parte, ci fermiamo qui. Continua nel prossimo post.
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