C’è un film di un certo Mike Judge, “impiegati…male!”. Nel film si vede un ufficio di impiegati e dirigenti impegnati nello sperimentare relazioni più lineari e meno gerarchiche. Tutto in una certa confusione di intenti e risultati. C’è un passaggio molto interessante. Nella zona caffè, gli impiegati hanno ricevuto l’invito a impreziosire le proprie uniformi con gadget, spille, marchi e quanto altro. L’invito è quello di mettersi addosso almeno 15 spille e simili. Ad un certo punto il direttore fa notare a Joanna, che sulla sua uniforme ci sono proprio “solo” 15 spille. La replica della dipendente è che quella era l’indicazione. La risposta del direttore è: “si, 15 era il minimo richiesto. Non vorrai far passare il messaggio che sei una persona che fa il minimo indispensabile? “La controreplica di Joanna è illuminante: “Sa cosa le dico Stan? Se vuole che mi metta trentasette spille addosso, perché non alza il livello minimo a trentasette??” Il direttore chiude con un laconico “sei stata tu che hai detto che volevi esprimerti”
La cosa è affrontata molto bene nel libro di Mark Fisher, Realismo Capitalista, edito da Zero Books - prima edizione 2009 e NERO per la nona edizione del 2018.
Tema di quel passaggio è Tutto ciò che è solido, si dissolve nelle public relations: Stalinismo di mercato e anti-produzione burocratica, pag. 86 e 87 dell’edizione NERO. (non mi si dica che non amo i dettagli).
L’argomentazione è sottile. In un contesto in cui si cerca di “liberare” l’espressione della persona, in ambito lavorativo, è utile in qualche misura analizzarne glie siti da un punto di vista quantitativo? Si tratta di porsi nella giusta connotazione di intenti e risultati. Se l’intento cioè, è quello di stimolare le persone a considerare la propria attività lavorativa un ambito annesso alla propria sfera psicologica individuale, carica di quello che la persona si porta dentro, come poi devono essere valutate le reazioni?
Quando il fenomeno si vuole inquadrare in un ordine burocratico di misurazione, questo sfugge alla scala quantitativa, dal momento in cui la materia da valutare è proprio refrattaria per sua natura ad una analisi di questo tipo. Per capirci, misurare quante volte una persona fa una cosa, non produrrebbe un dato utile, dal momento che trattandosi di sfera emozionale, una esperienza sarà sempre qualitativamente diversa dall’altra, e diversa da persona a persona. Non si può neppure prendere in considerazione la quantità di azioni intraprese per soddisfare la propria sfera emozionale. Joanna risponde poi con una precisa posizione. Rivela di essersi adeguata ad una strategia che non necessariamente lei reputa utile. L’effetto dell’esperienza è del tutto controproducente. Il sistema che dovrebbe generare esiti misurabili in termini di soddisfazione, volendo permeare una sfera di difficile connotazione geografica, cioè quali sono i confini della soddisfazione di una persona, non può dare risultati utili, ma tralasciando l’efficienza, dovrebbe mettere in risalto non la necessità dello strumento in particolare, ma la ricerca di uno qualunque, a discrezione delle persone, orientandosi verso l’efficacia, e comprendendo che beneficio se ne trae sia dallo sceglierlo che dall’usarlo. Lo strumento che codifica la procedura burocratizza l’esperienza che si assesta in un ambito puramente procedurale, appunto burocratico.
Detto in termini semplici, se l’esperienza aziendale si vuole orientare verso la ricerca di un benessere dell’individuo, questo non può passare da una standardizzazione degli strumenti “della ricerca della felicità” ma al contrario, deve operare fuori schema, con un orientamento al singolo individuo. Cercare allora processi nei quali ogni persona cerchi e trovi il suo personale percorso di espressione. La condivisione delle diverse esperienze, deve, se vuole portare dati sensibili, suggerire non quante volte, ma “come… ogni volta che.”
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