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  • Immagine del redattoreEdoardo Marazita

Non ci sono brutti lavori. Solo pessime leadership.


Parlando qualche tempo fa con un manager di un’azienda di servizi nel settore dei videogame, scoprivo una cosa molto interessante. Si discuteva di motivazione e incentivi. Sapevo già bene che il vecchio sistema riferito alla strategia degli incentivi economici e dell’encomio era da ritenersi superata. Lo sapevo perché avevo letto gli studi di Enrico Mastrofini ed Eugenio Rambaldi sui modelli di setting motivazionale. Nei loro studi si afferma che la “questione economica” non può essere intesa come uno stimolo per il collaboratore ma come un dato di fatto, assodato e dai connotati congrui e già di per sé soddisfacenti. In parole semplici, l’economia riferita al compenso deve essere certa, garantita, puntuale, adeguata, soddisfacente. Questo a prescindere. Usare l’incentivo economico come stimolo alla produzione è cosa ormai da dinosauri della gestione aziendale. Semmai, un bonus in denaro, deve essere una sorpresa inaspettata, mai riferita all’idea di premio. Ugualmente l’encomio pubblico suona retorico e del tutto irrilevante se appare strategico. Sollecitare l’ego e l’emozione di un collaboratore se proprio si desidera farlo, deve diventare una prassi usuale, praticata sempre fuori dal contesto del raggiungimento di un obiettivo. In parole semplici, se proprio volete ringraziare e plaudire un collaboratore, fatelo entrando in ufficio, davanti la macchinetta del caffè o incrociandolo nel corridoio. Non in una situazione creata ad hoc, tipo il festival aziendale dei “venditori del mese”!

Fatta questa premessa, mi domandavo quale criterio di motivazione usassero nella loro azienda. La risposta è stata tanto banale quanto illuminate. “non hanno bisogno di motivazione. Sono felici!”. Il manager mi stava dunque parlando di motivazione intrinseca. L’assetto aziendale, l’ampio spazio decisionale concesso al collaboratore, la sua puntuale partecipazione alle decisioni sugli obiettivi, i compensi adeguati e sempre un passo avanti le stesse aspettative del collaboratore, fornivano la risposta. Se vuoi stare bene tu, tratta bene il tuo organismo. Banale. Fisiologico. L’azienda è un organismo.

Allora?

Il discorso si è spostato in una stanza dove su una bacheca campeggiavano curiosi badge e loghi associati a diverse attività. Target reach, sviluppo di una nuova procedura, sconfitta del boss, salto di livello, arma segreta… una serie di cose che somigliavano ai riconoscimenti che si possono trovare nei video game. Una lista tipo classifica mostrava chi era più avanti rispetto ad altri. Mi sembrava una contraddizione rispetto a quanto avevo ascoltato. Invece no. Quello era un gioco aziendale. Nessun premio in denaro. Nessuna vacanza bonus. Nessun panettone per Natale. Solo un gioco. Quelli erano obiettivi che i collaboratori desideravano collezionare, per puro divertimento. L’idea si completava con la pubblicazione di un almanacco nel quale, tipo figurine dei calciatori, i collaboratori venivano raccolti accanto al loro ranking e ad essi era associato un livello del gioco e un soprannome. Anche tutta la classe dirigente partecipava.


A pranzo mi continuava a spiegare che quando l’azienda riesce a istituire una forma ludica di confronto, ispirandosi alle attività intrinseche e progettuali, dove la base della soddisfazione del collaboratore è garantita, quello diventava un motivo in più per lavorare meglio divertendosi. Mi raccontava che la massima soddisfazione del collaboratore ovviamente era battere il team manager, o il suo dirigente. Tutto avveniva in una orizzontalità di circostanze.

Il gioco mi spiegava, è fondamentale. Fare una riunione di produzione davanti una partita a Ping Pong può suonare strano, invece l’attività diventa comunque uno stimolo competitivo, ma il contesto rilassante aiuta nella ricerca di soluzioni, che non sempre giungono dietro una scrivania.

In quella azienda il collaboratore era autorizzato a seguire la sua vita sui social, a partecipare a giochi on line. E la cosa straordinaria è che quel collaboratore, invece, dato un occhio a Facebook e uno al suo profilo Instagram, magari poteva tenere su un secondo monitor il suo canale Twitch, ma senza che questo lo distraesse dal suo lavoro. Insomma. In fin dei conti è il solito vecchio motivo. Proibire produce crimine!!

La gerarchia dei bisogni di un collaboratore sia esso un operatore o un quadro dirigente, tiene conto sempre del suo profilo psico attitudinale. Se il soggetto è un “istituzionalizzato”, porrà gerarchicamente la società al di sopra delle sue esigenze immediate, riconoscendo ad essa l’identità di valore alla quale egli tende per sentirsi migliore. L’istituzionalizzato assume i valori aziendali e in essi configura il proprio setting. Riconosce la leadership e ad essa si riferisce come una fonte di stimolo. Il “professionista” invece vedrà la società come il luogo dove cercare i suoi simili, perché desidera appartenere al clan. In esso trova non i valori a cui aderire ma i valori che ritiene di possedere già, comuni ai membri del clan. Il professionista in genere apprezza i complimenti che provengono da questo clan, e non del tutto quelli di soggetti che riconosce estranei. Nella leadership vede nel migliore dei casi un omologo, ma pone molta attenzione nel posizionarvisi sempre accanto e mai al di sotto. Il “neutrale” è un soggetto interessato alla sua vita privata e vede il lavoro come uno strumento. Altrimenti detto “indifferente”, è il tipo di collaboratore che non trova più facilmente una collaborazione professionale di alto livello, dal momento che non ha mire espansionistiche, non anela a promozioni se queste non producono un effetto diretto sulle possibilità riferite alla vita privata. Più soldi vuol dire un’auto nuova. È il tipo di collaboratore che con tutta probabilità trova lavoro presso una leadership vecchio modello che non ha assunto consapevolezza di come i collaboratori felici, realizzino il valore dell’azienda.

Se si vuole istituire un modello di sviluppo della motivazione intrinseca, occorre prima considerare la tipologia di collaboratori di cui si dispone. Provate a dire ad un profilo indifferente di partecipare al gioco prima descritto. Con tutta probabilità, tornando a casa, farà commenti ironici su voi e le metodologie dei team leader che con un certo disappunto, definirà “moderni”.

La conclusione è, prima di adottare strategie che producono benessere, assicuratevi che i vostri collaboratori vogliano davvero stare bene. Ci sono persone che preferiscono stare male.

Ma ricordate anche questo. Non si lasciano mai cattivi lavori. Solo pessime leadership!


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