Ci sono storie che appassionano per il coraggio dei protagonisti. Alcune di queste le possiamo trovare nelle imprese che hanno fatto grande un’azienda. Il business è un mondo a volte spietato che non perdona errori, eppure ci sono persone che sono state in grado di commetterne di molto grandi, senza perdere la fiducia nei propri mezzi, continuando a mantenere la propria visione e soprattutto senza scendere a compromessi con la propria identità. Un’azienda è l’espressione degli uomini e delle donne che la animano, si nutre del loro coraggio ma anche delle loro paure. Affrontare la tempesta, questo è fare impresa. Una nave per grande che sia, trova il luogo più sicuro nel suo porto. Ma non è per il porto che una nave viene progettata. E qualcuno ancora dice che, se si temono le tempeste, è conveniente non prendere il mare. È vero tutto dunque. Ma come ho detto, ci sono uomini e donne che possono lasciare una testimonianza di come anche davanti alla sorte più avversa, si può trovare la rotta. Non è quasi mai un fatto economico ma piuttosto di coraggio. Il coraggio di mantenere salda la propria visione che coincide con la voglia di lasciare un segno.
Torno a parlare di Phil Knight, padre fondatore della Nike.
La Nike non si è sempre chiamata così, in origine si chiamava Blue Ribbon ed era una piccola azienda di scarpe per corridori. Solo per sportivi. Originario dell’Oregon, Phil, aveva sempre sentito il peso di essere un “sottovalutato”, di aver sprecato gran parte della sua vita e di non aver saputo cogliere le opportunità che aveva incontrato. Il punto è che in quelle opportunità, lui non ci vedeva il futuro. La sua piccola azienda, che gestiva insieme ad un pugno di uomini, come lui del tutto inadatti a fare affari nell’America del Vietnam, l’America dei grandi cambiamenti, e soprattutto l’America dell’Adidas e della Puma, non poteva aspirare ad avere il sostegno dei grandi atleti, di grandi finanziatori, di sponsor e di tutto il corredo che una azienda americana solitamente può disporre per navigare il mare burrascoso del mercato.
Col tempo, avremmo imparato che proprio il settore sportivo negli USA sarebbe diventato un mercato miliardario, un ricco affare per chi ha capitali da investire, ma escluso ai più piccoli, che però di solito sono i più coraggiosi.
Vengo al punto.
Alla fine degli anni “70 quella che era stata ribattezzata Nike, navigava in acque oscure. Con un fatturato di 14.000.000 di dollari all’anno, non aveva un centesimo di liquidità. Tutto era investito nel mantenimento delle fabbriche in Giappone, a Taiwan, e sparse un po’ per la “piccola America”. Filiali gestite da improbabili quanto surreali personaggi, ognuno dei quali aveva in comune con gli altri una vita di delusioni, di incomprensioni, di fallimenti. La Nike cioè fondava il cuore della sua struttura umana su perfetti falliti!
Vendeva, ma non guadagnava. In quegli anni occorreva fare un salto. Un salto bello grosso o l’azienda avrebbe chiuso per sempre. In uno dei Consigli di amministrazione venne fuori l’idea che si poteva quotare l’azienda in borsa. Si poteva fare. La Nike vantava già un percorso solido, aveva immobilizzazioni nelle fabbriche, e per quanto non guadagnasse, come ho detto, vendeva.
Quotarsi in borsa sarebbe significato, avere subito una fortissima iniezione di capitali. Soldi facili e veloci. Si sarebbero potute aprire altre fabbriche. Si sarebbero potute vendere più scarpe. In quel momento mentre si pensava a questa opzione, la banca che faceva da sostegno all’azienda, ritirò la sua adesione, chiedendo di rientrare subito degli scoperti, congelando tutti i conti della Nike. Tutti i dipendenti e tutte le filiali, nel giro di una notte si videro senza fondi e senza poter pagare gli stipendi, le forniture, le bollette, i conti. La quotazione in borsa restava l’unica opzione.
Ma Phil Knight e i suoi compagni di avventura, non volevano cedere agli azionisti il diritto di decidere dove indirizzare il sogno di una azienda che voleva cambiare le regole del gioco. Per nulla al mondo avrebbero ceduto ad un gruppo di estranei il loro futuro, e neppure il legittimo diritto a fallire a modo proprio!
Quindi decisero di affrontare l’uragano. Non sapevano quanto grosso stesse per diventare. Dopo la batosta della sfiducia della banca di sostegno, ecco il vero occhio del ciclone. Per ragioni che non sto qui a spiegare, la Nike ricevette una multa da 25.000.000 di dollari da parte dell’Ufficio della Dogana, per una serie di dazi non versati o versati male o ricalcolati ancora peggio. Quello che chiunque chiamerebbe con una sola parola: la fine!
Quotarsi in borsa! È l’unica possibilità! Chi tra noi non avrebbe immediatamente lanciato una proposta di acquisto il giorno successivo? Chiunque. Non il vecchio Phil. Loro no! Neppure davanti alla catastrofe sicura, questo gruppo di folli e sconsiderati imprenditori accettarono di vendere il proprio sogno, di cedere al ricatto dei soldi e senza avere un piano, andarono verso l’unica direzione che ritenevano possibile per loro. “siamo noi la Nike” si dissero “e se deve morire oggi, morirà con noi al comando!”. Decisero di affrontare il processo, e invece di mantenere i pochi spiccioli in cassa, andarono in giro a comprare nuove fabbriche. Inventandosi pacchetti di noleggio, di affitto, di garanzie che non avevano, tutto fuorché svendere la propria azienda e prima di tutto loro stessi.
La devo chiudere qui. In un altro post magari scriverò di come ne uscirono e divennero quello che tutti noi oggi sappiamo essere la Nike. Forse, semplicemente abbassando lo sguardo e osservando le scarpe ai nostri piedi!
Al coraggio di non cedere mai! Al coraggio di essere folli e innamorati dei propri sogni!
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